mercoledì 16 settembre 2009

STAMPA DA NON PERDERE










Non si specula sul dolore», diceva ieri Giustino Parisse, il giornalista del "Centro" che ha perso i due figli Domenico e Maria Paola sotto le macerie. «La serenità tornerà quando vedremo ricostruito il nostro vero paese». C'è differenza fra alloggi e case, ripeteva per radio a Caterpillar don Luigi Epicoco, parroco universitario dell'Aquila. «Gli alloggi fanno audience ma non sono case. Infatti le chiamano casette. Non è lungimirante non aver ricostruito case vere, case per gli studenti per esempio: case attorno alle quali rinascesse la vita dell'università e poi della città intesa come luogo di relazione tra le persone». Non si specula sul dolore. Ieri è stato un giorno di festa, a Onna, perché l'asilo progettato da Giulia Carnevale, studentessa di ingegneria uccisa nel crollo della Casa dello studente, è stato inaugurato davanti ai suoi genitori. Perché 94 casette di legno saranno il tetto di altrettante famiglie, a Onna. Spiace, in tutto questo, vedere quelle aggiunte ai cartelli messe in fretta e furia: sopra le scritte Croce Rossa e Provincia di Trento è comparso, attaccato da ultimo, il cartello grigio della Protezione civile, marchio del governo. Un'aggiunta posticcia per certificare a reti unificate una menzogna propagandistica, una televendita funzionale ad accrescere il consenso. Ma il governo non c'entra niente con gli alloggi di Onna, lo spiega bene il presidente della provincia di Trento Dellai a Claudia Fusani, lo scrivevamo su questo giornale già ieri: quelle case sono state costruite in 43 giorni grazie alla Croce Rossa, alla Provincia di Trento (13 milioni di euro stanziati) e ad altri donatori privati. Altre saranno inaugurate presto, donate dalla Caritas. Altre dalla famiglia Barilla e da altri sponsor. Quelle del governo le vedremo. Il centro dell'Aquila aspetta. L'Università, come racconta il rettore, anche. È un peccato dover precisare, in un giorno così lieto per Onna, che il presidente del Consiglio si mette come sempre in primo piano nelle foto, arriva da ospite in una festa altrui e ruba la scena. Del resto lo ha fatto fin dal principio: proprio di questo, dei suoi esordi come costruttore, racconta oggi la seconda puntata della «Silvio Story». Oggi ha migliorato la tecnica e padroneggia il mezzo: ruba la scena e per essere sicuro che non ci sia nessuno a far domande detta lui stesso il palinsesto Raiset. Concorda con Bruno Vespa la prima serata su RaiUno (ieri fianco a fianco, il giornalista e il presidente, a tagliare nastri e stringere mani, a sorvolare paesi in elicottero), poi fa spostare Ballarò, RaiTre, poi fa cancellare la programmazione di Matrix dalle sue reti Mediaset. Così che non ci sia nessuno, ma proprio nessuno, che dica nemmeno per sbaglio, in tv: sono le casette di Dellai e della Croce Rossa. Qui, come nella fiaba di Alice nel paese delle Meraviglie, tutte le casette sono sue. Il segretario Pd Dario Franceschini ha declinato l'invito a partecipare in una prossima puntata di Porta a porta che sarebbe servita, nelle intenzioni di Vespa, a garantire la par condicio dopo l'estenuante e menzognero spot di ieri. «Non mi renderò complice», ha detto Franceschini. Vespa a Di Pietro che lo paragonava a una sedia elettrica ha risposto che vuole le sue scuse, in caso contrario non lo inviterà più. Così ora sappiamo cosa augurarci.
L'empatia è la religione dei laici, si soffre come all'inferno, ma non ci si può rinunciare. Pena la perdita dell'unico Dio concreto, praticabile: l'altro, la persona.








Mi venivano i brividi, e, subito dopo, attacchi di rabbia, quando mio padre iniziava la sua cavatina cinica: «L'uomo è bestia, egoista e capace di amare solo se stesso e la sua progenie». La chiosa, lo sapevo, sarebbe stata, invariabilmente: «Siete dei poveri illusi voi, che volete la giustizia e l'eguaglianza». Pensavo che era un vecchio scemo, chiuso, gretto. Un piccolo borghese senza sogni e senza progetti grandiosi. Leggendo di quel 71% degli italiani che si sarebbe detto (il condizionale è diretta emanazione della mia incredulità di fronte ai sondaggi) favorevole ad incriminare per immigrazione clandestina i 5 superstiti di un gommone carico di morti di sete, ho pensato: forse aveva ragione mio padre. L'empatia, questo stato d'animo faticoso e sublime, non è, evidentemente, alla portata di tutti. Ci si mette nei panni dei propri figli, poi dei propri amici, quindi dei simili intesi come affini, perché la fantasia è poca (nella media) e non riesce a coprire la distanza culturale fra una ventisettenne eritrea e la vicina di casa, anche lei di Brescia o Verona, che legge da sempre lo stesso giornale ed espone, negli incontri di pianerottolo, opinioni omogenee alla sottocultura di caseggiato. Pare difficile, invece, sentirsi, anche solo per un attimo, la pelle nera, la miseria come prospettiva, la guerra in casa, la carestia, l'ignoranza addosso, la denutrizione, la paura. Ci si riuscisse, magari facendo, come in certe scuole di recitazione, esercizi di penetrazione nella psicologia del personaggio, non si potrebbe restare indifferenti a quell'oscillare patetico di speranza e disperazione, non si saprebbe condannare a restar fuori chi ha bisogno di essere accolto. L'empatia è la religione dei laici, si soffre come all'inferno, ma non ci si può rinunciare. Pena la perdita dell'unico Dio concreto, praticabile: l'altro, la persona.

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